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Da politici e televisione l'ideologia del sapere "utile"

09.12.2012 15:15

di Tiziana Drago (il manifesto, 8 dicembre 2012)

Quando ricerca e formazione sono funzioni a servizio del mercato. E sempre per i figli degli altri
La televisione si è improvvisamente accorta che il mondo della formazione e della ricerca esistono. La puntata "riparatrice" estorta a Fabio Fazio dai docenti della scuola, giustamente indignati dalle poco sobrie e per nulla istituzionali dichiarazioni del premier Monti sugli insegnanti corporativi e poco collaborativi (in fondo gli si era chiesto solo di lavorare senza retribuzione per qualche ora per sottrarre occupazione retribuita ai precari: certo un bel risparmio!), ha visto un ministro Profumo che sembrava l'uomo sbagliato nel posto sbagliato: un passante reclutato in trasmissione al momento.
In sintesi: io sono ministro dell'istruzione da poco tempo, non potevo far altro che oliare il sistema, non c'era il tempo per impostare riforme strutturali, ci si mettono anche lo spread e il debito pubblico (in più, certo, dal fondo di finanziamento ordinario dell'università, ogni anno vengono prelevati 15 milioni di euro per salvare l'Alitalia, 10 milioni per diminuire il prezzo dei carburanti, 5 milioni per la cassa pensioni dei giornalisti); e poi Monti è inflessibile e il Miur è grande, certi ingranaggi sono complicati, tutti considerano fondamentale la formazione solo a parole e -chicca finale- bisognerebbe considerare una priorità scuola e università e fare pressione sui politici.
Dopo queste esilaranti dichiarazioni, ecco il suggerimento di Milena Gabanelli e Luca Chianca al ministro Profumo nell'ultima puntata di Report: «Rendere produttivo l'immenso patrimonio» rappresentato dai lavoratori in pensione. Si tratta di valorizzare «una professionalità che altrimenti andrebbe perduta». Bene. E anche di «uscire» dallo «stereotipo dell'anziano come costo» e di promuovere la «possibilità» dell'anziano «come risorsa». Benissimo. Il punto è che da questi nobili intendimenti scaturisce la proposta pedagogica e didattica di creare nelle scuole «laboratori che insegnino anche semplici lavori manuali» e «attività minute, piccole, di attenzione, di precisione»; così che gli studenti possano «imparare ad arrangiarsi nei lavori artigianali, che volendo potrebbero diventare un lavoro». La scuola, insomma, dovrebbe avviare i giovani a riparare sedie, aggiustare scarpe, rammendare tessuti (i più dotati a dirigere aziende). E l'idea si fa qui assai insidiosa e per niente innovativa: va infatti tutta nella direzione -culturale e politica- che si è percorsa sinora con risultati disastrosi.
Chi non ricorda il mantra del governo Berlusconi e dei ministri Tremonti, Gelmini e Sacconi sulla scarsa commestibilità della cultura e la necessità di valorizzare i lavori manuali, utili e produttivi? «Basta con le lauree fasulle», «i giovani hanno l'intelligenza nelle mani», «è meglio un carrozziere che un laureato in nulla», «a che serve pagare uno scienziato quando facciamo le scarpe più belle del mondo?».
Se l'allergia al pensiero logico e all'astrazione era un tratto distintivo del governo Berlusconi, c'è un'infelice continuità nelle politiche degli ultimi governi (di destra e di sinistra) in tema di istruzione e di investimento in ricerca e sviluppo: come non vedere che proprio l' apertura al territorio e l'avvicinamento al mondo delle aziende, costituiscono il catechismo di tutte le riforme da Berlinguer a Gelmini? Evidentemente, anche per Report scuola e università, ridimensionate al perimetro di un'agenzia di collocamento, sono solo lo strumento attivo di educazione alle priorità del mercato. Di un mercato che si nutre di una manovalanza dequalificata e sottopagata, in grado di sostenere con i propri corpi il dopo Cristo di Pomigliano.
E che ne facciamo di tutti quei saperi (discipline umanistiche e teorico-scientifiche) che, non essendo immediatamente "utili", non prevedono ricadute aziendali immediate? Se tutto deve essere pratico, empirico, spendibile, in quale ottica è più possibile concepire la storia, la letteratura, il cinema? E, in ultima analisi, l'intera dimensione dell'immaginario? A meno di non abbracciare il manifesto confindustriale per la «valorizzazione della cultura»: la cultura come risorsa, capace di generare attivi, di dialogare col mercato, di produrre risultati quantificabili. Il mercato come misura di ogni cosa. E nessuna idea del fatto che la cultura sia invece (e debba essere) "inutile" e fine a se stessa. Di immenso valore, ma senza alcun prezzo.
Per quel che mi riguarda, nessun disprezzo per il lavoro manuale, attività nobile e antica, ma solo la grande amarezza che per le intelligenze vive del nostro Paese (ovviamente, sempre i figli degli altri) l'unica possibilità che la nostra classe dirigente sia stata in grado di offrire sia la seduzione dignitosa di un lavoro da falegname. E, dall'alto della propria nobile vita, ci si permette pure di chiamarli choosy.

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